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Crisi dell’editoria cattolica o della cultura umanista?

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L’annuncio del fallimento del Centro editoriale dehoniano ha prodotto un qualche flebile e per ora limitato dibattito: oltre all’informazione in sé, che è passata sulle pagine locali dei giornali e nella sezione culturale di Avvenire, si poteva registrare fino all’altro ieri un articolo di Cosentino sull’OR, un intervento di Brunelli sul blog de Il Regno e un articolo di Mastrofini su Il Riformista.

Di ieri il contributo di Massimo Faggioli su Domani, che allarga lo sguardo dalla situazione italiana a quella più ampia del cattolicesimo al tempo di Francesco. Già nel corso dell’estate era intervenuto, su Vita e Pensiero, Giuliano Vigini parlando di «disarmo dell’editoria cattolica».

In un modo o nell’altro tutti questi apporti a un eventuale, e necessario, dibattito pubblico, si giocano sul terreno di casa – quello della Chiesa cattolica, della cultura (altrettanto cattolica), della Chiesa italiana e così via. Scelta di campo certamente pertinente, se si parte dall’anomalia italiana formata dal binomio editoria cattolica-librerie cattoliche – con le case editrici “laiche” che negli ultimi due decenni hanno iniziato pian piano a inserire in catalogo anche il “religioso” ben commerciabile. Da quello a effetto, a quello trend del momento, fino all’instant-book che fa perno su fatti di cronaca ed eventi del giorno.

Il provincialismo del cattolicesimo italiano

Al momento manca ancora una riflessione che inserisca la crisi di questo comparto del cattolicesimo all’interno di processi più ampi: non per trovare giustificazioni, ma per cercare di capire ragioni sottostanti e non di settore che non sono irrilevanti rispetto a quella stessa crisi – che esiste da almeno un decennio, ma sulla quale nessuno o pochi hanno detto qualcosa che non fosse semplicemente scontato o di maniera.

Un decennio, inoltre, in cui ognuno è andato per la sua strada (non solo gli editori), senza sentire il bisogno di creare un luogo in cui potessero convergere le varie esperienze in ambito culturale del cattolicesimo italiano.

Perché questa è la (triste) realtà del cattolicesimo di casa nostra: non solo minoritario, che potrebbe essere anche un bene e uno stimolo, ma anche frammentato in se stesso, insulare anche quando si è di fatto molto prossimi nella comprensione del cristianesimo e nella visione della Chiesa, e sostanzialmente incapace di mettere in atto dinamiche federative che possano dare peso al buono di quanto ciascuno produce nel suo laboratorio off-limits.

Ma fermiamoci qui per ciò che riguarda il vicolo (cieco) del cattolicesimo nostrano. Appunto perché credo che ci siano fenomeni più ampi, nei quali tutti siamo immersi, che devono essere presi in considerazione quando succede qualcosa in una nicchia marginale della società.

Pensare di risolvere tutto quello che sta intorno alla crisi dell’editoria cattolica (in Italia) mettendo a tema solo la questione del declino della cultura cattolica (non solo in Italia), ossia del disinteresse per la cultura nella Chiesa, nelle parrocchie, nelle associazioni, nella vita religiosa e così via, rimane un approccio sostanzialmente provinciale.

L’umanesimo smarrito del sapere

Mi limito a due riferimenti che potrebbero allargare un po’ l’orizzonte. Il primo è quello di una diffusa crisi della cultura umanista, che può essere registrato sia in riferimento al numero delle immatricolazioni nelle facoltà delle cosiddette Geistwissenschaften, sia rispetto al ruolo sempre più marginale che queste facoltà hanno oggi all’interno dell’accademia dei saperi, e anche alla lotta per la loro sopravvivenza a fronte di uno sbilanciamento strategico sempre più evidente verso le discipline di carattere tecno-scientifico.

La lenta estinzione di generazioni giovani sensibili allo spirito, iniziate ai tempi lunghi richiesti dalla cultura umanista e disponibili ad accettare che su di essa ben poco si lucra in termini di successo, erode in maniera massiccia la disponibilità sociale al tempo speso per formarsi un’idea propria, capace di autonomia sia nella sua genesi che nella sua argomentazione, accettando che essa – per quanto ben fondata – non approderà mai alla forza dell’evidenza delle scienze naturali (che è molto più instabile di quanto la loro divulgazione ci voglia far credere).

Il fideismo dell’opinione

Parallelamente, si deve registrare la consunzione di una delle istanze fondamentali della modernità: quella del dibattito pubblico. A dire il vero, esso ha giocato il ruolo di una vera e propria istituzione: dove il sapere contribuiva a configurare la socialità condivisa e a formare le coscienze dei cittadini e delle cittadine.

Di questa istituzione oggi non esistono più neanche i ruderi, soppiantata completamente dai talkshow, in cui vince chi grida più forte o interrompe più di frequente il contraente, e dai social media nei quali rigurgitiamo il sentire della pancia e non certo la fatica del pensiero.

Siamo passati dal dibattito pubblico a un nuovo fideismo: fidatevi degli scienziati, che è la versione moderna (e poi pandemica) dell’antico obbedite ai preti, da un lato; fidatevi della rete di specchi che il digitale vi crea per trovare solo ciò che conferma ed è conforme a come la pensate, che è la versione in rete di qualcosa che sta tra l’alchimia e la stregoneria, dall’altro.

In fin dei conti, oggi quello che conta non è più il sapere ma la mera opinione che non deve né giustificarsi né essere argomentata (appunto, perché è un mio diritto sacrosanto – e quindi deve essere rivendicata senza contenzioso alcuno).

La mente del lettore

Il secondo riferimento che dovrebbe entrare in gioco è quello della modificazione della “mente di un lettore” che nasce oramai come lettore digitale (in merito consiglio la lettura del bel saggio Reader Come Home: The Reading Brain in a Digital World di Maryanne Wolf). Per questo lettore il libro cartaceo non è immediatamente fruibile, ad esso egli va educato e introdotto fin dai giorni dell’infanzia affinché possa prenderlo in manoe e sfogliarne le pagine come qualcosa che appartiene al suo mondo.

E quando il lettore digitale è costretto a passare ancora attraverso l’arcaico (per lui) della scrittura e della lettura che escono dagli schemi del digitale si perde completamente, non sa proprio come abitare questo spazio fatto di carta, di frasi lunghe più cinque parole, che richiedono una punteggiatura e una qualche connessione grammaticale fra loro. Ho corretto tesi di laurea o esami scritti in Germania, Stati Uniti, Austria e Italia: ovunque mi sono trovato davanti al dramma della sintassi e della grammatica…

Nessuno si salva da solo

Il libro non si salverà da sé, e con esso le case editrici. Senza le giuste alleanze, con le famiglie, la scuola, le associazioni di ogni tipo frequentate dalle generazioni più giovani, la scrittura e il libro scompariranno sempre più dall’orizzonte della vita e della mente delle persone… saranno oggetti esotici per piccoli circoli elitari che verranno percepiti come esoterici e non certo come i custodi della cultura comune.

Per il cattolicesimo italiano la chiusura delle EDB dovrebbe diventare l’occasione per uscire dal proprio brodo e partecipare al riscatto e al rilancio della cultura umanista senza ulteriori etichette, stringendo alleanze con chiunque non è disponibile a riporla sullo scaffale di una biblioteca in cui non entra più nessuno. Altrimenti in quel brodo moriremo, senza neanche accorgerci di aver mangiato fino a oggi una minestra che è stata cotta più di sessant’anni fa – che sia stata capace di nutrirci fino a oggi è un merito che le dobbiamo riconoscere.

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